Mentalizzazione: Cos´è E Come Si Sviluppa
Mentalizzazione: cos´è e come si sviluppa
«[…] conoscere se stessi, come hanno detto alcuni tra i sapienti, è la cosa più difficile, ma anche la più piacevole […]; come, dunque, quando vogliamo vedere la nostra faccia la vediamo guardandoci allo specchio, allo stesso modo quando vogliamo conoscere noi stessi potremmo conoscerci guardandoci nell’amico; infatti l’amico è, come abbiamo detto, un alter ego. Se, quindi, è piacevole conoscere se stessi, e non è possibile conoscersi senza un altro che ci sia amico, l’individuo autosufficiente avrà bisogno dell’amicizia per conoscere se stesso».
Aristotele
Il processo mentale attraverso cui noi interpretiamo il mondo, noi stessi e gli altri è mentalizzazione. Essendo una specie sociale, mentalizzare è alla base della nostra socialità. La consapevolezza degli stati mentali altrui e la consapevolezza di sé stessi ci permette di interagire in modo efficace con la mente dell’altro e promuove la capacità di risolvere problemi, grazie, anche, alla capacità di regolare le emozioni. Mentalizzare ci mette in condizione di essere aperti alle menti degli altri e alla loro influenza, capaci di attingere dalle prospettive altrui e lasciarci guidare verso modi di pensare, sentire ed agire migliori. Mentalizzare bene ci rende quindi in condizione di crescere per mezzo delle relazioni, comprese quelle psicoterapeutiche.
Fra le tante definizioni, la più riassuntiva data da Bateman e Fonagy è, probabilmente, questa: “la mentalizzazione è quel processo mentale attraverso cui un individuo interpreta implicitamente ed esplicitamente, le azioni proprie e altrui come aventi un significato sulla base degli stati mentali intenzionali come i desideri, i bisogni, i sentimenti, le credenze e le motivazioni personali” (Bateman & Fonagy, 2006).
Questa definizione indica alcuni aspetti del concetto tra loro collegati:
- Il mentalizzare come fenomeno “metacognitivo”, nel senso che si riferisce alla capacità di interpretare i pensieri e le azioni. Di essere, cioè, “capaci di pensare a se stessi e agli altri come dotati di una mente” (Meins, 1998).
- Il mentalizzare ha a che fare con i significati che attribuiamo alle azioni nostre e degli altri, cioè alle ipotesi implicite o esplicite di cui facciamo uso per capire perché noi, o un altro, possiamo aver pensato o fatto questa o quella cosa.
- Mentalizzare non è una proprietà cristallizzata della mente, ma un processo, una capacità o un’abilità che possono esserci o non esserci, ad un livello maggiore o minore (Allen & Fonagy, 2006).
Un’importante assunto collegato al concetto di mentalizzare, e che in parte è nelle sue radici, è il concetto di Empatia che sappiamo essere la consapevolezza e la risonanza dello stato emotivo di un’altra persona. Allen, Fonagy e Bateman descrivono l’empatia come “la metà della mentalizzazione”.
Essa non ha una componente di riflessività ed è una consapevolezza immediata e preconcettuale, a differenza della mentalizzazione che implica la capacità di riflettere in maniera dichiarativa sugli stati mentali e che include la riflessione sui propri pensieri ed affetti oltre che su quelli degli altri.
Come possiamo vedere nell’immagine qui riportata (Choi-Kain & Gunderson, 2008), La mentalizzazione cerca l’equilibrio tra una visione focalizzata sia sul sé che sull’altro. La mindfullness, a sua differenza, è incentrata più sul proprio pensiero e vissuto e meno sulla prospettiva dell’altro. È stata definita dalla cultura Buddista come il “saper tenere viva la propria consapevolezza nella realtà presente” e possiamo classificarla come una forma di meditazione intrapsichica, psicologica e comportamentale. Brown e Ryan hanno concepito la mindfullness come “un’attenzione potenziata e una presa di consapevolezza nei riguardi dell’esperienza corrente o realtà presente” (Brown & Ryan, 2003). Possiamo definirla in certo senso vicina al concetto di mentalizzazione nella misura in cui implica un’attenzione rivolta in modo particolare agli stati mentali, ma è possibile ritenerla più una competenza piuttosto che un processo psicologico evolutivo complesso. Inoltre, mentre la mindfullness è centrata sul presente, si può mentalizzare sia riguardo al passato che al futuro.
Attaccamento e mentalizzazione
Esiste uno stretto legame fra attaccamento e mentalizzazione, sia dal punto di vista evolutivo che dal punto di vista clinico: un attaccamento sicuro porta a una buona mentalizzazione e una buona mentalizzazione alimenta un attaccamento sicuro. Allo stesso modo un attaccamento insicuro porta a problematiche nella mentalizzazione e problematiche nella mentalizzazione portano a un attaccamento insicuro. Bowlby, sosteneva come l’attaccamento sicuro potesse dare non solo un rifugio (come conforto emotivo e sensazione di sicurezza), ma anche “una base solida per l’esplorazione e la crescita personale” (Bowlby, 2000). Sappiamo, infatti, che oltre all’esplorazione del mondo esterno la base sicura offre al bambino la possibilità di conoscere il proprio mondo interiore. Poiché i bambini raffigurano la loro mente nella mente del caregiver, secondo Bowlby a seconda del tipo di relazione che si sperimenta nell’infanzia si avrà un determinato comportamento in età adulta. Il tipo di relazione potrà mutare profondamente lo sviluppo delle emozioni e delle regolazioni affettive nell’adulto. Seguendo questo principio, la mentalizzazione, è influenzata dalla capacità di mentalizzare del caregiver.
Nel caso di maltrattamenti nell’infanzia o abusi, avviene un vero e proprio “fallimento riflessivo”. Questo, secondo Ferenczi, attiverà delle difese nel bambino quali l’identificazione con l’aggressore, la scissione, la regressione e la progressione traumatica. Fereczi ci dice che: “il bambino violato, terrorizzato dalla paura, anziché reagire e difendersi, tenderà a sottomettersi automaticamente. La vittima, sovrastata da un potere schiacciante e fuori controllo, non attiva una reazione di rifiuto o difesa, ma, soggiogata da una paura impotente, si sottomette alla volontà dell’aggressore. Come unica possibilità di sopravvivenza, la vittima abdica, rinuncia alla propria persona, consegnandosi all’aggressore ed identificandosi esattamente con ciò che egli si aspetta. Tende a sentire da un lato ciò che l’aggressore stesso sente, dall’altro ciò che l’aggressore vuole che la vittima senta” (Ferenczi, 1992).
Le conseguenze di uno sviluppo traumatico sul piano psicopatologico si riveleranno terreno fertile per future relazioni insicure (caratterizzate da traumi non elaborati) e disturbi mentali, perversioni e manifestazioni di comportamenti aggressivi e di abuso verso altri conseguenti alla fissazione a stadi psicosessuali infantili, alla confusione rispetto al significato delle proprie pulsioni e all’identificazione con l’aggressore.
Quando un bambino traumatizzato avverte che tutte le immagini di Sé restituitegli dagli adulti sono negative sperimenta un dolore lacerante e intollerabile. Questo dolore può indurlo ad evitare e allontanare le persone. Di conseguenza, quando qualcuno cercherà di empatizzare con lui e di pensare ai suoi stati mentali, egli proverà a sottrarsi o reagirà in modo aggressivo. Egli non vorrà riconoscersi nel pensiero degli altri, perché il rispecchiamento dato dagli adulti nella sua infanzia lo hanno portato a sentirsi cattivo, non compreso e non amato.
Questi due processi, cioè il bisogno evolutivo di avere una figura che si occupi di noi e il processo della mentalizzazione -in questo tipo di situazioni in cui l’adulto è la fonte del trauma- non possono coesistere poiché se il bambino pensasse alla mente dell’adulto non ci si riavvicinerebbe. Secondo Bateman e Fonagy quello che avviene è che a fronte di questa incompatibilità tra questo bisogno educativo e questo processo mentale -attaccamento e mentalizzazione-, prevale l’attaccamento. Ovvero prevale il bisogno di avvicinarsi a una figura che comunque in qualche modo si occupi di noi, anche fosse traumatico, e viene inibita la capacità di mentalizzare del bambino stesso.
Concludendo, quindi, “la mentalizzazione trova uno sviluppo ottimale nel contesto di relazioni di attaccamento sicuro ” (Choi-Kain & Gunderson, 2008). Al fine di sviluppare delle buone capacità di mentalizzazione è importante che gli adulti siano attenti verso gli stati d’animo e interiori del bambino. Un bambino che ha un attaccamento sicuro con un caregiver può infatti esplorare la mente dell’altro con sicurezza e senza timore. Il fallimento della capacità genitoriale provocherà un fallimento nella capacità di mentalizzazione. Un bambino con un caregiver che mentalizza ha buone basi per diventare un adulto che mentalizza a sua volta.
AUTORE: Dott. ssa Sara Rammella - Laureata in Psicologia Clinica (Università degli Studi di Urbino Carlo Bo) - sara.rammella.7@gmail.com
Riferimenti Bibliografici: